L'ultimo tango
dell'Argentina che spaventa il mondo…
La banca centrale sta
combattendo una battagli disperata contro la svalutazione del peso. Servono
duecento milioni di dollari al giorno per salvare il Paese dal baratro ne quale
sta nuovamente precipitando. Torna l'incubo del 2001: default e sanguinosa
cancellazione del debito. Da allora molto è cambiato: gli investimenti
stranieri ormai guardano altrove e oggi Buenos Aires è sola.
BUENOS AIRES - L'ingresso
della Banca centrale a Buenos Aires è un tempietto neoclassico di colonne
bianche non lontano da luoghi molto più carichi di passato e simboli: la plaza
de Mayo, la Casa Rosada, la Cattedrale dell'episcopato. È il
"microcentro" della capitale argentina, la City. Un reticolo di
stradine pedonali dove di giorno è quasi impossibile camminare senza sbattere
contro qualcuno ma che, dopo il tramonto si svuota, diventando un labirinto abbastanza
pericoloso per l'incolumità del neofita. È qui, nella Banca centrale, che si
combatte in queste ore l'ultima guerra d'Argentina, la battaglia del peso.
Sostenere la moneta locale dalla svalutazione sta costando alle riserve
monetarie del Paese quasi 200 milioni di dollari al giorno. Tanti ne stanno
gettando sul mercato i funzionari della Banca per impedire il disastro. Ma, a
questi ritmi, è una guerra già persa. Sul campo minato della battaglia
finanziaria l'Argentina ha già lasciato quasi 4 miliardi di dollari delle sue
riserve nel breve volgere di dicembre e gennaio, l'estate australe da queste
parti. Due mesi, massimo tre, dicono gli economisti, e quando lo Stato non avrà
più dollari per sorreggere il valore della sua moneta arriverà il crac. Si
salvi chi può.
D'altra parte basta dare
uno sguardo alle cifre. Il dollaro si scambia sul mercato ufficiale controllato
a 8 pesos mentre su quello "vero", parallelo, libero, continua a
crescere. Era a undici, poi a dodici, oggi è a tredici. Il 60% di
più. Per contenere la pressione, all'inizio della settimana, il governo ha
dischiuso l'uscio. Ha svalutato e liberato parzialmente l'acquisto di dollari
che era completamente proibito alle persone dalla fine del 2011. Non basta. La
fuga dai pesos è ormai un fiume in piena e chiunque ha risparmi cerca di
metterli al sicuro nelle monete forti.
Così l'Argentina è
tornata a correre sull'ottovolante come alla fine del 2001 quando la crisi
precipitò nel default, nella cancellazione del debito estero dei bond (che
tanti risparmiatori italiani stanno ancora soffrendo) e in una delle
svalutazioni più pesanti della storia. Lo scenario c'è tutto. L'inflazione
cresce (+4% solo a gennaio), il deficit fiscale - ossia la differenza fra
quanto lo Stato spende e quanto incassa - pure. Mentre i sindacati si preparano
al rinnovo dei contratti pretendendo aumenti al di sopra del 30%, ossia
l'inflazione reale del 2013. L'altro guaio che confonde la congiuntura è
l'immagine di debolezza e confusione del governo.
La Presidenta Cristina
Kirchner non c'è. A dicembre è scomparsa per settimane nei suoi possedimenti in
Patagonia convalescente per una operazione. A causa di una caduta le si era
formato un ematoma nel cranio. È tornata a Buenos Aires solo per andare
all'Avana dove, mentre il suo esecutivo tremava, si è fatta fotografare insieme
a Fidel Castro e alla moglie dell'anziano ex lider maximo, Delia Soto del
Valle. Ha evitato accuratamente il vertice economico di Davos. È nervosa,
distratta. Forse vorrebbe addirittura mollare prima di essere travolta dalla
tempesta in arrivo. In tv vanno, una volta per uno, il segretario alla
presidenza, Capitanich, e il ministro dell'Economia, Axel Kicillof. Provano a
mettere delle pezze. Chi compra dollari per la paura del crollo del peso è
"un traditore della patria", affermano. "L'ultima svalutazione
non avrà effetto sui prezzi", giurano. Altrimenti minacciano multe e
sanzioni ai negozi che "speculano". Ma il circolo ormai è vizioso e
nessuno sa veramente cosa fare per invertire lo scivolone ormai dietro l'angolo.
Se lo Stato spende i suoi
dollari per sostenere il peso, non ne ha per finanziare le importazioni. I
supermercati si svuotano, le fabbriche si fermano. La scarsità dei prodotti
rilancia l'inflazione. Nessuno vende perché non sa quanto costerà domani quello
che ha. Così si favoleggia di container alla rada lontano dal porto pieni di
mercanzie che gli importatori non scaricano. Aspettano per evitare di perderci.
Il problema - dice un
analista finanziario - è che a Buenos Aires da tempo "il denaro scotta in
mano". Una famiglia di classe media che ha risparmi in pesos non sa cosa
farsene se non osservare come perdono valore. Non li mette in buoni del Tesoro
perché dopo il fallimento del 2001 non si fida. Fino all'altro ieri non poteva
neppure cambiarli in dollari perché era proibito. E non può neanche investirli
nel mercato immobiliare perché, da quando Cristina ha deciso che le transazioni
per l'acquisto di immobili possono avvenire solo in pesos, nessuno vende più.
Stagflazione è la parola maledetta. Vuol dire stagnazione economica, crescita
inesistente del Pil con inflazione alta. È comunque il destino prossimo
dell'economia argentina se i suoi piloti riusciranno a salvarla dal tracollo
del default della fine dei dollari nelle casse del Banco Centrale.
In fondo è uno scenario
semplice, il governo dovrebbe tagliare, e molto, le spese. Ma non può, senza
incendiare il Paese. In questa strettoia da brividi Capitanich e Kicillof si
trovano abbandonati dalla Presidenta. Kicillof è un ministro dell'economia molto
giovane. Poco più di quarant'anni. Ha assunto l'incarico a dicembre scalzando
il suo rivale perché, si dice, ha sedotto Cristina intuendone la psicologia. È
piuttosto bello, ma anche un po’ presuntuoso. Kicillof è un simpatizzante di
Carlo Marx. Da assistente all'Università faceva lezioni sul plusvalore e sul
feticismo delle merci. Ora vorrebbe smentire i manuali d'economia e avviare
l'Argentina verso la "fine del capitalismo".
Nuove tormente sembrano
inevitabili anche se la differenza con il 2001 è profonda. Questa volta
l'Argentina è da sola con i suoi ciclici drammi politico-economici. Si teme un
contagio regionale, ma nulla di più. Il Paese della Kirchner è da tempo fuori
dai mercati del credito, litiga con l'Fmi e non ha forme per finanziare i suoi
debiti. Gli investimenti stranieri se ne sono andati verso la Colombia, nuovo
gioiello dell'economia sul Pacifico. Se il peggio deve ancora arrivare la
politica già si muove per spartirsi il dopo Cristina. Sperando che non sia così
drammatico come si preannuncia. Le elezioni sono lontane, in teoria. Fine 2015.
Ma Cristina ci arriverà?
Una variabile positiva,
si sostiene nella capitale, questa volta potrebbe essere il Papa argentino. Sui
giornali adesso Bergoglio furoreggia per la copertina di Rolling Stone e il
disegno nel quale vola come Superman. E c'è perfino un aspirante candidato che
attende la benedizione dal Vaticano per lanciarsi nella scalata alla Casa
Rosada. È il presidente del Parlamento Julian Dominguez che sogna un movimento
alla Solidarnosc, Wojtyla più Walesa, per rimettere a posto il Paese e
regalargli un futuro meno tragico.
Poi c'è anche chi se ne
va. È triplicato in pochi mesi il numero degli argentini che scelgono di
spostare la residenza nel vicino Uruguay. Lungo le spiagge di Punta del Este.
Hanno cominciato gli intellettuali e gli artisti come la disegnatrice Maitena,
famosissima qui per una deliziosa striscia di comics, e il ballerino Julio
Bocca. E la tendenza ha successo. D'altra parte perché restare a Buenos Aires
che sarà anche bella ma è sporca, pericolosa, caotica e dall'avvenire incerto?
Molto meglio il piccolo Stato riformista di Pepe Mujica. Magari noioso, ma ben
governato e accogliente dall'altra parte del Rio de la Plata. Chi non può, e
sono naturalmente la stragrande maggioranza, attende intrepido. L'Argentina è
sull’ottovolante del suo ennesimo tango monetario e nessuno può prevedere
quando e soprattutto come scenderà.